14 lug 2009

TEMPO DI GUERRA, TEMPO DELLA GUERRA

SOLDATI: conversazione con il Generale Fabio Mini
di Anna Luisa Santinelli

[Soldati (Einaudi, pp 125, € 9,00) è l’ultimo saggio scritto in ordine di tempo da Fabio Mini. Di questo Generale “anomalo” (per essere una voce fuori dal coro) ed erudito, la redazione di Carmilla si è già occupata in passato qui e qui. F. Mini è stato Capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa e al vertice della Kfor in Kosovo. Collabora con “la Repubblica” e “Limes”.]
1) Generale, nelle prime pagine del suo libro traccia un distinguo netto tra “tempo di guerra” e “tempo della guerra” (quello che stiamo vivendo). Potrebbe approfondire tale distinzione?
Il tempo di guerra è il periodo che la gente trascorre sotto i bombardamenti. Molti popoli oggi conoscono il tempo di guerra, direttamente, come i nostri nonni e genitori hanno conosciuto quello delle guerre mondiali.

Il tempo della guerra non è la contingenza del conflitto armato ma è il periodo in cui tutto ruota intorno all’idea della guerra, ai suoi riti, alle sue minacce. Questa idea pervade oggi ogni politica e ogni attività internazionale. Sembra che non ci sia più altra soluzione che la guerra, altra chance che la guerra. Per farla le è stato perfino cambiato il nome. Gli stessi sforzi per la pace ruotano attorno all’idea di evitare la guerra e nel frattempo essa è tenuta allo stato di immanenza, con la paura. Il tempo della guerra significa che essa è sovrana e sovrasta ogni attività umana. Mentre il tempo di guerra è razionale perché rappresenta un punto eccezionale di esplosione della violenza, il tempo della guerra, come forma mentale, è una tendenza di lungo periodo e quindi irrazionale perché contrasta con le aspirazioni più utili all’uomo: la pace e la cooperazione fra i popoli. Paradossalmente, si può avere il tempo di guerra mentre si cercano la pace e il rispetto dei diritti, ma il tempo della guerra porta soltanto a percepire i diritti come giustificazione per la guerra. La più grande delle sfide che il presidente Obama deve affrontare sul piano internazionale come leader della nazione più potente e bellicamente preparata del mondo non è soltanto quella di passare dal tempo di guerra a quello di pace. Ma quella di liberarsi dalla schiavitù del tempo della guerra instaurata dai suoi predecessori. E forse nemmeno lui lo sa.
2) Parlando dell’ambito militare, industriale e politico, descrive un’evoluzione (passaggio dalla Guerra fredda agli anni Novanta) nelle modalità di combinazione di questi settori. Attualmente come interagiscono i tre sistemi? E il cambiamento di cui lei parla, cosa ha comportato?
Ho definito questa combinazione come un incesto. E’ un rapporto di commistione fra consanguinei. Non è soltanto un fatto di sistemi che interagiscono ma di sistemi che si autogenerano e persino di stesse persone che perpetuano la propria potenza scambiandosi i posti, i favori e le turpitudini. Non è un fenomeno nuovo, ma in questo triangolo incestuoso la politica aveva sempre mantenuto un primato e gli altri sistemi, quello industriale e quello militare, lo riconoscevano e lo rispettavano. Quando si parlava di fini che giustificavano i mezzi ci si riferiva sempre ai fini di stato, pubblici, a quelli stabiliti dal potere politico che talvolta erano negativi ma nella maggior parte dei casi erano fini positivi. Quello che è successo negli ultimi cinquant’anni ed è stato accelerato negli ultimi venti è la scomparsa di questo primato per cui i fini positivi sono soltanto quelli degli interessi dei sistemi privati. Oggi con la crisi assistiamo al riconoscimento del ruolo statale, ma non tutti lo intendono come ritorno del primato pubblico. Anzi mi sembra che molti ritengano di sfruttare ancora di più il potere di stato, la ricchezza pubblica e gli interessi collettivi a favore degli interessi privati chiamando lo stato, e quindi i cittadini, a pagare anche per gli errori di alcuni gruppi di potere.
3) L’odierno lessico della guerra è spesso ammantato di ipocrisia: “guerra umanitaria”, “azioni chirurgiche”... La “grammatica della guerra” ha tuttavia delle ricadute non indifferenti sulla realtà, basti pensare alla perifrasi “effetto collaterale”. Nel saggio Lei denuncia “il fiorire di fantasie lessicali” e soprattutto smaschera questo genere di linguaggio.A tale proposito, quali conseguenze ha l’uso dell’espressione “operazione di polizia internazionale” applicata agli scenari di guerra attuali?
Può sembrare una banalità, ma a forza di negare all’avversario il ruolo di nemico trasformandolo in criminale, si è modificata la natura stessa della guerra e si sono gettate le basi per la mancata applicazione delle leggi internazionali che la regolano. Un criminale è perseguito dalla polizia, non dagli eserciti. E quando si usano gli eserciti si devono stabilire le leggi da rispettare. Oggi viviamo nella condizione di avere leggi, costumi e consuetudini di guerra molto precise, ma di non avere nulla di simile per combattere i criminali. Quindi si verificano due fatti strani: gli eserciti credono di non essere soggetti alle leggi di guerra e di non dover garantire alcun diritto ai propri avversari. Gli avversari che non hanno diritti si sentono autorizzati a non avere doveri nei riguardi di nessuno. Si scatena così una guerra non dichiarata e neppure riconosciuta che pone tutti i contendenti al di fuori dei confini stessi stabiliti dal diritto internazionale. Si fanno salti mortali per ribadire almeno i diritti primari dell’uomo, ma sul piano operativo è molto difficile richiedere un trattamento dignitoso per gli avversari dopo averli criminalizzati. In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito alla legalizzazione di cose assolutamente inconciliabili sia con il diritto dei conflitti sia con i diritti umani. La prigione afgana di Bagram, quella irachena di Abu Ghraib e Guantanamo sono diventati i luoghi dove la violazione dei diritti umani è legale soltanto perché si è negato ai prigionieri lo status di combattente. I cosiddetti danni collaterali che colpiscono i civili possono essere giustificati con la logica di colpire tutti per non riconoscere ad alcuni uno status di legittimi insorti. A questa logica appartengono anche i rapimenti e le torture. In realtà, le cosiddette operazioni di polizia internazionale utilizzate per combattere insorti, per invadere paesi e per cambiare regimi antipatici hanno accentuato il rischio di trasformare le forze militari in strumenti criminali: contro la loro stessa legge, ma non sempre contro la loro volontà.
4) ... mentre la nozione di “vittoria”, obiettivo finale di ogni conflitto, entra in cortocircuito se associata al concetto di “guerra permanente”. Due situazioni inconciliabili, giusto?
Esatto. Non c’è vittoria se la guerra non finisce. E solo dopo la guerra si può constatare chi ha veramente vinto e cosa ha veramente prevalso.
5) Riporto le sue parole (pag. 13):
«Se la struttura organizzativa di al-Qaeda viene colpita e dispersa, quella ideologica acquisisce nuovi seguaci e fa propria la stessa teoria dello scontro di civiltà inventata in Occidente per giustificare la guerra globale
. La risposta occidentale è soltanto la guerra, ma non quella nuova che la situazione richiederebbe e che nessuno ha ancora saputo individuare nonostante le indicazioni di pochi e onesti studiosi come i
colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui, ma quella vecchia, tecnologica e pur sempre tradizionale, nella sua anacronistica e ottusa linearità. [...] la struttura operativa del terrorismo si frammenta ed espande, ricorre indifferentemente a strumenti e logiche primordiali e alla tecnologia, supera le nazioni e gli Stati e si nutre di ogni possibile motivo di adesione anche temporaneo e distante dagli scopi del nucleo originale.»
Perché l’Occidente adotta ancora misure “clausewitziane”, da guerra convenzionale, contro un avversario proteiforme capace di tali sottigliezze strategiche?
La logica occidentale di contrasto alle forme di eversione e di violenza terroristica non si è né attenuta fedelmente a quella clausewitziana né si è evoluta in relazione alla nuova minaccia. E’ rimasta a metà e allora sono prevalse le pulsioni reattive, le misure di forza e perfino l’uso improprio della forza militare. Quando gli stati si sono trovati in difetto di legittimità nel condurre operazioni militari con le forze regolari sono ricorsi ai mercenari e alle operazioni segrete violentando la loro stessa natura e dimenticando che il segreto non autorizza l’illegalità e comunque ci sono dei limiti “di civiltà” che nessuno, per nessuna ragione dovrebbe superare. In pratica si è attinto al peggio di due eventi antichi come il mondo: la guerra fra simili e la repressione dei diversi.
6) Riguardo alle spese per la Difesa in Italia, alcuni passaggi del suo libro sono particolarmente espliciti:
«C’è la pratica ormai dilagante della contabilità “creativa”, figlia naturale della finanza “creativa”: quel nuovo settore della magia bianca grazie al quale i debiti e le elargizioni ai gruppi di pressione diventano investimenti, le spese fisse per il personale sono spese improduttive opinabili, le spese di gestione e funzionamento sono perdite e le perdite di patrimonio o le speculazioni ai danni del capitale dello Stato diventano entrate produttive.

[...]
I nostri stessi vertici militari non si sono privati del piacere di perorare presso la Nato gli interessi dei gruppi industriali di riferimento prendendo parte attiva alle “promozioni” sponsorizzate (pagate) da essi. E quando si tratta di impegni internazionali assunti, dimentichiamo in quale contesto e chi li ha assunti a nome del paese. Spesso vengono da vere e proprie fanfaronate da salotto, da logiche di profitto, da un’errata concezione dei doveri, dal protagonismo individuale [...] E così da quindici anni abbiamo un modello della Difesa che finge di prevedere quanti uomini servono alla sicurezza mentre in realtà pensa a quanti aerei , carri e navi possono produrre 190 000 soldati, tutti professionisti. [...] Sei bersaglieri fanno un blindato da un milione di euro, tre carristi un carro da due, un pilota fa un aereo da novanta milioni e un centinaio di marinai fanno una nave da un paio di miliardi. Di euro.»
Generale, uscire da una situazione simile che, a prescindere dal “colore” dei governi in carica, perdura da così tanto tempo, è fattibile? Come?
Penso che oltre che fattibile sia doveroso e non soltanto per una semplice questione di soldi. Dobbiamo finalmente analizzare quanta insicurezza esiste, che cosa la produce e chi ne trae vantaggio. Dobbiamo farlo insieme con altri paesi che a parole condividono gli stessi valori di democrazia e pace. Se facciamo questa analisi in maniera seria ci possiamo rendere conto che gli strumenti militari attuali non sono adatti a controllare molte delle minacce che incombono o a fugare la paura e incrementare la sicurezza. Ci possiamo rendere conto che ci servono strumenti diversi e che ci basterebbero risorse contenute. Tutti assieme, ad esempio in Europa, possiamo avere uno strumento efficiente, moderno e veramente utile senza dissanguare le nostre casse pubbliche, senza chiedere ai soldati sacrifici inutili e senza mandarli in operazioni inconcludenti solo per far piacere a qualche politicante. Questo vorrebbe dire tornare al primato della Politica, quella vera, quella che bada agli interessi di tutti. Purtroppo non vedo grandi iniziative in questo senso. Tuttavia c’è un fenomeno naturale che di tanto in tanto si scatena in situazioni simili: l’entropia. Con la frenesia, l’ebollizione e le avventure i sistemi diventano instabili e implodono. Non è un processo istantaneo e le avvisaglie sono sempre molto chiare. La crisi che stiamo attraversando è un segnale di entropia globale. Sta a noi interpretare i segnali e adottare le misure di correzione anche nel campo della sicurezza.
7) Una domanda su *emergenza sicurezza/controllo del territorio*: per le strade italiane ronde di cittadini più o meno legalizzate e impiego di militari. Quale tipo di logica sottende queste recenti scelte politiche? Un suo parere.
Sono il segno di una regressione intellettuale prima che operativa. Ma è anche colpa delle forze operative della sicurezza, di tutte, se si è arrivati a questa regressione. In questi ultimi anni non c’è stato nessuno che ha messo sufficiente impegno nel dimostrare che il controllo del territorio è un fattore di sicurezza essenzialmente percettivo. Mentre si conseguivano successi eccezionali contro la criminalità organizzata e si ricostruivano sofisticati schemi di criminalità, nessuno ha badato all’impatto sulla gente del piccolo crimine, dello stupro e del furto. Nessuno ha saputo cogliere i segnali che pure sono stati mandati da tutte le forze dell’esercito e di sicurezza durante le operazioni internazionali. Nessuno ha badato all’inutilità, provata in contesti anche più semplici, dei semplici pattugliamenti, dei presidi fissi, dei posti di blocco, delle uniformi sgargianti e dell’aspetto bellicoso delle forze. Nessuno ha voluto ascoltare i suggerimenti rivolti al cambiamento degli assetti e all’enfasi da dare alle informazioni e alle operazioni mirate, guidate appunto dalle informazioni, piuttosto che fare sceneggiate davanti alle telecamere. Nessuno ha colto i segnali di nuovi bisogni di sicurezza che venivano proprio dalle reazioni della gente alle interminabili e oniriche serie propagandistiche sulle forze di sicurezza. Le varie serie hanno cercato di spacciare come normali ed eroici dei comportamenti e modelli che non hanno alcun riscontro nella realtà. Tutti si sono accorti del divario tra realtà e fantasia e la percezione d’insicurezza è aumentata anche a dispetto dei dati oggettivi sulla diminuzione della criminalità. Purtroppo anche in questo caso si è voluto ignorare che mentre i reati calavano di numero la sensibilità della gente a tutti i tipi di reato è aumentata in modo esponenziale. Ciò che ieri era vissuto come un fatto di cronaca oggi è una tragedia collettiva: ed è questa la realtà che avrebbe dovuto indirizzare un nuovo approccio al controllo del territorio. L’impiego dell’esercito nei pattuglioni misti è servito a squalificare ulteriormente le forze di sicurezza, ad ampliare la forbice tra realtà e fantasia o propaganda, a banalizzare l’impiego delle forze armate e ad abbassare la soglia della loro impiegabilità. Le ronde cosiddette volontarie sono la conseguenza culturale di questo processo di negligenza che di fatto indirizza verso gli immigrati e ciò che si vede facilmente le paure della gente e le incapacità operative delle istituzioni. Ed è una cosa che abbiamo già vissuto in maniera drammatica. In più, le ronde rischiano di diventare strumenti di fazioni deliranti e di avventurieri politici. Una conseguenza che nessuno è preparato a gestire e un rischio che non ci possiamo permettere.
8) Esaminando le
note biografiche che la riguardano, è inevitabile osservare come la sua franchezza, non abbia ostacolato il suo cursus honorum. Scusi la domanda irriverente, ma... com’è stato possibile?
Mi piace credere di aver raggiunto l’apice della carriera e di aver avuto incarichi di straordinaria importanza grazie all’intelligenza di capi che apprezzavano l’innovazione, le opinioni e lo stimolo a riflettere che venivano dai dipendenti. In questo senso mi ritengo soltanto fortunato. Oggi questa intelligenza non è del tutto scomparsa, ma è molto più difficile che sia apprezzata dai gruppi politici, industriali e militari che, non badando agli interessi pubblici, non hanno bisogno né di consiglieri né tanto meno di critici.
Per approfondire:
In rete compaiono numerose video interviste -tutte degne di nota- al Gen. F. Mini. Segnalo
questa.Altri interventi o articoli dello stesso autore sono reperibili sul sito di Peacereporter.

13 lug 2009

Il primo di una lunga serie di video. Scelto a caso per prova .

Si vedrà ben altro.

Perché la Destra è più noglobal della Sinistra
Marco Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più noglobal della Sinistra, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pagg. 223, euro 12.

Le società occidentali sono, di tanto in tanto, attraversate da correnti di contestazione che, come fiumi carsici, erompono all’improvviso dal sottosuolo, restano in superficie per un certo tratto, per poi sprofondare di nuovo ed essere riassorbite, in attesa di tempi migliori, nonché di uomini all’altezza dei tempi. I temi dell’ambiente e della qualità della vita hanno offerto, nell’ultimo quarto del secolo scorso e in questo inizio di terzo millennio, le occasioni più propizie al manifestarsi di questa dinamica.
Il segno più sicuro del suo isterilirsi, inaridirsi, e quindi del successo arriso all’operazione di recupero e di sprofondamento, è il soggiacere degli attori sociali e politici che incarnano queste tendenze alla tradizionale dialettica destra-sinistra. È successo con i verdi che, in origine, avevano nel trasversalismo e nella volontà di non omologarsi una delle loro caratteristiche più interessanti. Poi, a poco a poco, i partiti tradizionali hanno cominciato a lisciare il pelo ai vari esponenti ecologisti, a lusingarli inserendo nei loro programmi qualche paragrafo sull’ambiente. I verdi hanno iniziato a sbandare, a disunirsi, a disperdersi, e ora sono diventati un inutile partitino di sinistra che usa le tematiche ambientali come richiamo identitario e specchietto per le allodole (un po’ come faceva il vecchio Msi col fascismo) per tentare di raccattare qualche voto e garantire la sopravvivenza di un certo numero di carrieristi della politica.
Lo stesso, amaro destino toccherà pure al movimento no global? Ci sono buone ragioni per temerlo (ma siamo i primi ad augurarci di formulare una previsione sbagliata). I suoi esordi non sono dissimili da quelli degli ecologisti. Anche in questo caso, troviamo inizialmente una chiara, e condivisibile, consapevolezza dei limiti della politica istituzionale e della necessità di nuove aggregazioni. Jeremy Brecher e Tim Costello, autori di un testo che ha contato parecchio nel milieu no-global (Contro il capitale globale, Feltrinelli), scrivono senza possibilità di equivoci che l’espansione del liberismo globalizzatore ha determinato, come contraccolpo, il confluire di «soggetti i cui interessi erano un tempo visti come conflittuali tra loro».
Maurizio Meloni - promotore della Rete Lilliput, redattore di “Altreconomia” e partecipante alla “mitica” battaglia di Seattle, cui ha dedicato un libro - nella postfazione a un altro saggio che ha avuto un certo peso nella elaborazione teorica dei no global (L. Wallach-M. Sforza, WTO. Tutto quello che non vi hanno mai detto sul commercio globale, Feltrinelli), giunge al punto di auspicare «un vero e proprio salto di paradigma rispetto all’identità profonda della militanza novecentesca». Quest’ultima non è più frequentabile o perché è diventata serva dell’economia, o perché è naufragata negli esperimenti totalitari. Eppure esiste, secondo Meloni, un percorso praticabile «tra lo spazio della politica moderna che si inabissa col finire del secolo e un nuovo spazio pubblico che sta faticosamente maturando».
Idee e propositi familiari ai nostri lettori, anche se bisognosi di ulteriori approfondimenti, che però rischiano seriamente di restare sulla carta se tutto si riduce, come sta accadendo a molti, nostrani esponenti no global e ad alcuni segmenti del movimento, ad approdare dalle parti di Rifondazione comunista. Come salto di paradigma non ci sembra granché. Ci paiono, piuttosto, le prime scene di un film già visto altre volte in passato, che porterà all’ennesima versione di nuova sinistra che col tempo sarà sempre più sinistra e sempre meno nuova fino a non distinguersi più dalla vecchia che Meloni giustamente critica, accusandola di essersi fatta semplicemente portatrice, in versione progressista, delle politiche neoliberiste.
L’operazione di recupero del movimento no global dentro le tradizionali e sperimentate coordinate politiche può essere, tuttavia, condotta anche prendendo come riferimento il versante opposto. È quanto fa, in A destra di Porto Alegre, Marco Fraquelli, il quale attribuisce alla destra una sorta di diritto di primogenitura in materia di antiglobalizzazione. Detto altrimenti, la destra sarebbe quasi per natura, geneticamente, ostile alla globalizzazione, ossia alla creazione di un mondo fortemente interdipendente, unico, asservito alle logiche economiche e finanziarie, dove le differenze tra popoli e culture svaniscono e diventano irrilevanti.
È bene, a questo punto, precisare che, quando parla di destra, Fraquelli si riferisce sostanzialmente alla destra radicale-tradizionalista e alla Nuova destra. Dal suo campo di indagine resta perciò esclusa quella che egli chiama destra «egemonica» o «maggioritaria» o «governativa» (leggasi Alleanza nazionale) in quanto «mi pare che, almeno finora, non abbia offerto una riflessione né ‘ufficiale’ né ufficiosa particolarmente degna di nota sul tema della globalizzazione». Il punto di riferimento intellettuale, se così si può dire, la matrice del discorso antiglobalizzatore della destra intesa in questi termini sarebbe costituito dai Protocolli dei Savi di Sion, il testo antisemita che tratta di un presunto (ed inesistente) complotto degli ebrei per dominare il mondo a spese delle altre nazioni. Questa fase complottista, che ha avuto in Emmanuel Malynski (autore di un saggio sulla guerra occulta) e in Julius Evola i suoi araldi più significativi, sarebbe stata poi sostituita da una critica al mondialismo e al “sistema” che uccide i popoli, e qui l’autore si richiama a Gabriele Adinolfi, a Guillaume Faye e alla rivista “Orion” quali portatori di questo discorso, nel quale rientrerebbero anche la Lega Nord e gli altri partiti affini europei in quanto sostenitori di un populismo dalle tinte xenofobe, se non addirittura razziste.
Nell’indigeribile pot-pourri Fraquelli include altresì Alain de Benoist e la Nuova destra (francese e italiana), che hanno riportato in auge i concetti di differenza e di comunità e si oppongono frontalmente agli Stati Uniti, paese che incarna la globalizzazione e quindi la cancellazione delle differenze, nonché la casa editrice “Arianna” per la sua ideologia “glocalista” ed alcuni battitori liberi come Franco Cardini, Maurizio Blondet e Massimo Fini.
Giorgio Galli, al quale si deve la prefazione al saggio, ascrive a titolo di merito di Fraquelli il fatto che la sua ricerca riguardi «uno spazio di indagine sinora trascurato da altri autori, in un ambito che pure ha dato origine a un’ampia pubblicistica». Quello che a Galli sembra un titolo di merito a noi pare piuttosto un vicolo cieco o, a scelta, un’occasione perduta, un sentiero che non conduce da nessuna parte. I nuovi movimenti (sociali e/o culturali) sono infatti interessanti, e quindi degni di diventare oggetto di studio, in virtù degli elementi di novità che contengono.
E, come abbiamo visto, i no-global (e in precedenza i verdi) si sono caratterizzati per il loro tentativo di sfuggire alla gabbia delle identità politiche tradizionali. Ricondurli in quest’area, e mettersi a misurare col bilancino del farmacista quante dosi di destra e quante di sinistra sono presenti nel loro dna, è un’operazione che si concentra sui dettagli e perde di vista l’essenziale, che è costituito dal permanere, in Occidente, di significative fasce sociali che provano un crescente disagio verso la way of life occidentale (ovvero, sviluppo economico esponenziale sostenuto da scelte belliche rese inevitabili dalla necessità di controllare i flussi di energia indispensabili a garantire uno standard di vita consumistico) e non si sentono più rappresentate dal “teatrino della politica”, per usare un’espressione una volta tanto azzeccata di Berlusconi (teatrino nel quale però rientra anche lui), e che, tra mille contraddizioni, errori e fallimenti, sono alla ricerca di nuove formule di convivenza, di diversi modi di vivere insieme.
Non è senza significato che le confusioni e le incongruenze più gravi presenti nel testo riguardino proprio la Nuova destra, vale a dire il soggetto che meno si presta ad essere incasellato nella destra e che pone all’autore i maggiori problemi interpretativi, che egli peraltro non risolve, limitandosi, puramente e semplicemente, ad aggiungere la Nd alla disparata congerie di nomi e sigle che affollano il libro. All’inizio, Fraquelli ci fornisce una definizione della Nuova destra difficilmente contestabile. Si tratta, egli scrive, di «un filone del tutto particolare, che, pur nato in un alveo “radicale”, nel corso della sua evoluzione - e affermazione - ha caratterizzato la propria identità rifiutando ogni ancoraggio alla visione del mondo “tradizionale” e reazionaria tipica della Destra radicale».
A proposito, poi, di Pierre-André Taguieff e del suo saggio Sulla Nuova destra (Vallecchi), osserva che «rappresenta oggi il lavoro certamente più organico e approfondito in materia», mentre di Taguieff si dice che è «indiscutibilmente tra gli osservatori più puntuali e acuti della Nouvelle Droite». Lo stesso Fraquelli, però, non tiene alcun conto di queste sue corrette convinzioni. Se, infatti, la Nuova destra è il frutto di un processo evolutivo e di un distacco dal suo ambiente d’origine - di una dédroitisation, per dirla con Taguieff - ci si chiede che senso abbia inserirla nel contesto di una ricerca che quella matrice originaria tende invece a riaffermare con forza. La cosiddetta Nuova destra non ha ormai più nulla a che fare col radicalismo di destra e le sue suggestioni, ed è difficilmente collocabile lungo l’asse destra-sinistra. Ha elaborato delle nozioni di differenza, identità, comunità e universalità rispettose dell’uomo e della sua dignità e quindi non ha nulla a che spartire nemmeno col razzismo, sia esso palese o mascherato sotto le spoglie del differenzialismo. Questi sono i risultati cui, gradualmente, giunge Taguieff.
Il valore del suo libro risiede appunto nel mostrarci l’evoluzione del suo pensiero nel suo confronto con la Nuova destra. L’apprezzamento di Fraquelli per Taguieff è dunque poco più di un astratto riconoscimento formale che non trova nessun riscontro concreto nelle sue pagine. Anzi, si può dire che alcuni dei più significativi risultati della pluriennale ricerca di Taguieff vengano respinti. Così, ad esempio, il conflitto che ha opposto de Benoist a Steuckers (e, attraverso di lui, alla destra radicale) viene ridotto a una faccenda di simpatie e antipatie, “a una rivalsa fortemente venata da risentimenti personali e soggettivi più che analitici e oggettivi”, mentre le ricerche di Taguieff documentano esattamente il contrario.
Quanto al delicato tema del razzismo differenzialista, Fraquelli scrive: «Io credo che non si tratti di un’operazione di semplice mascheramento, ciò non toglie che l’approdo finale sia comunque una posizione reazionaria, senza comunque voler dare a questo termine alcun giudizio di valore». Dunque, se le parole hanno un senso, c’è anche un mascheramento, benché non tutto sia riconducibile ad esso. Il pensiero di Taguieff va, invece, in una direzione completamente diversa, ed è riassumibile nelle parole di un’intervista rilasciata al periodico “Una Città”, nella quale lo studioso francese riconosce che la Nd è pervenuta «a una forma, in se stessa non razzista, di difesa delle identità etniche, una forma moderata di relativismo culturale che si può ritrovare in un teorico del nazionalismo etnico come Anthony Smith in Inghilterra o in Lévi-Strauss e che trovo del tutto legittima»[1].
In realtà, i veri mentori di Fraquelli sono i giornalisti Guido Caldiron e Bruno Luverà (citati nel saggio), autori di opere che, pur diverse nell’ispirazione culturale, sono animate dalla medesima impostazione di fondo, quella del patchwork, che, nel caso di Caldiron e Luverà, si prefigge degli scopi demonizzanti (gettare l’ombra del sospetto e bagliori sulfurei su tutto ciò che ha, a torto o a ragione, un sia pur vago sentore di destra), mentre nel caso di Fraquelli ci sembra prevalere la nietzscheana “potenza del costume” che, sebbene indebolita nel mondo di oggi, evidentemente continua ad operare in alcuni settori come quello politico. Questa potenza - la tradizione - presenta il vantaggio di evitare all’uomo la fatica di riflettere, mettendolo di fronte a uno scenario familiare e rassicurante. Orbene, cosa c’è, in politica, di più familiare e rassicurante della tripartizione “destra/centro/sinistra”? Alain de Benoist, “Diorama” e “Trasgressioni” debbono perciò, volenti o nolenti, rientrarvi.
Tra i due aspetti individuati quali fonti di ispirazione degli scritti, rispettivamente, di Caldiron e Luverà da una parte e di Fraquelli dall’altra - la demonizzazione e la potenza del costume - c’è peraltro un legame: la pretesa all’originalità, il tentativo di indicare vie (meta)politiche nuove, “scostumate”, non può - è ancora Nietzsche a insegnarcelo - che essere qualcosa di malvagio da colpire senza pietà o, nel migliore dei casi, da marginalizzare. Caldiron e Luverà propendono per la prima soluzione, Fraquelli, ci pare, per la seconda.
Le nostre perplessità sulla fatica saggistica di Fraquelli non sono, peraltro, legate soltanto al suo irrisolto rapporto con i lavori di Taguieff. Nel libro, infatti, Fraquelli incorre in un paio di cantonate che ci fanno sorgere seri dubbi sull’effettivo livello di approfondimento della materia trattata. Nella lunga nota di pagina 82, una mia citazione tratta dall’introduzione di Sulla Nuova destra viene attribuita a Taguieff. A pagina 157, il genetista Giuseppe Sermonti viene indicato come «autore, con Rauti, di una sorta di “controstoria del Fascismo”, pubblicata da CEN nel 1976», confondendolo col fratello Rutilio. Un autore con un minimo di avvedutezza dovrebbe, d’altronde, nutrire il sospetto che difficilmente un genetista può avere il tempo, la voglia e la competenza necessari per scrivere una ponderosa opera in sei volumi che esula dai suoi specifici interessi[2].
A destra di Porto Alegre si apre, come spesso capita, con alcune parole di ringraziamento dedicate, in questo caso, a Giorgio Galli e Gianfranco Monti (nel frattempo scomparso). Sono stati loro, osserva Fraquelli, a incitarlo a scrivere il libro «nel corso di molte serate passate di fronte a ottimi cibi (preparati dalla moglie di Gianfranco, Donatella) e ottimi vini». Grazie a questi stimoli, Fraquelli confessa di aver ritrovato il gusto della scrittura: «È un piacere a cui non vorrei rinunciare per altri dieci anni. Spero che il lettore non viva questa affermazione come una minaccia». Fraquelli non se l’abbia a male, ma è proprio questo che abbiamo pensato. Ci permettiamo, perciò, di dargli un consiglio: perché non prova a mettere a frutto le serate di cui sopra per scrivere un libro di ricette culinarie? È un consiglio non disinteressato, lo ammettiamo, ma ci sembra comunque un buon consiglio.
Giuseppe Giaccio